Addizioni…

Nonostante vengano associati alle più recenti tecnologie, gli additivi alimentari sono utilizzati da secoli. La conservazione del cibo ebbe inizio quando l’uomo imparò ad immagazzinare i raccolti per l’anno successivo e ad utilizzare la salatura e l’affumicatura per far durare più a lungo la carne e il pesce. Gli Egizi impiegavano coloranti e aromi per rendere più appetitosi certi alimenti e i Romani usavano il salnitro (nitrato di potassio), le spezie e i coloranti per conservare e migliorare l’aspetto dei cibi. I cuochi usavano comunemente il bicarbonato di sodio per far lievitare i prodotti da forno, gli addensanti per salse e sughi e i coloranti, la cocciniglia per esempio, per trasformare materie prime di qualità in cibi sicuri, sani, gustosi e attraenti. La preparazione e la conservazione degli alimenti sono obiettivi che accomunano la cucina tradizionale e l’industria, solo i metodi differiscono.

Aria nuova in cucina!

“Bisogna riconoscere che La scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare I Promessi Sposi“. Per comprendere questo celebre giudizio di Piero Camporesi sull’opera  di Pellegrino Artusi, può essere utile un esempio di come ci si esprimeva nei manuali di cucina ancora in uso negli stessi anni :

Grillò Abbragiato. La volaglia spennata si abbrustia, non si sboglienta, ma la longia di bue piccata di trifola cesellata e di giambone, si ruola a forma di valigia in una braciera con butirro. Umiditela soventemente con grassa e sgorgate e imbianchite due animelle e fatene una farcia da chenelle grosse un turacciolo, da bordare la longia. Cotta che sia, giusta di sale, verniciatela con salsa di tomatiche ridotta spessa da velare e fate per guarnitura una macedonia di mellonetti e zuccotti e servite in terrina ben caldo”. (Giovanni Vialardi: Cucina Borghese semplice ed economica. Citato in: M. Fabretti, Pellegrino Artusi e la cucina di casa, CasArtusi).

 

Inappetenze

Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!

Carlo Lorenzini, detto Collodi: Le avventure di Pinocchio

Profiteroles a tradimento

Vi avverto: questa è un po’ difficile… Primo, dovete fare i bignè (che più corretto sarebbe chiamare choux)! Mettete a scaldare in un tegame 250 ml di acqua, con 100 g di burro fatto a pezzetti e un cucchiaino di sale. Quando bolle, tirate via dal fornello, buttatevi dentro tutta insieme 250 g di farina 00 e mescolate energicamente. Rimettete su fiamma non forte e continuate a spatolare finchè si asciuga un po’, si stacca dalle pareti del tegame e sfrigola: ci vorranno una decina di minuti. Togliete dal fornello e, mescolando sempre, fate raffreddare. Rompetevi dentro un uovo e mescolate fino ad amalgamarlo bene, e fate lo stesso con altre 4 uova, uno alla volta. Alla fine l’impasto dovrà essere cremoso e vellutato ma “fermo”. Se volete evitare il rischio che la pasta risulti troppo fiacca, sbattete ogni uovo a parte e aggiungetelo poco alla volta, o almeno fate così con l’ultimo! Lavorate ancora con il mestolo, fino alla formazione di bollicine superficiali. Mettete l’impasto in una tasca da pasticciere con bocchetta rotonda e spremete su una teglia unta e infarinata leggermente (o su carta da forno) dei tondi di circa 4-5 cm. Mettete in forno già scaldato a 200° e tirateli via quando gonfiano e hanno un colore dorato. Lasciate raffreddare. Diliscate bene del pesce che avrete lessato in un brodo saporito, lavorate la polpa con olio e.v. sale, pepe bianco macinato e aneto in polvere (scegliete in base alla varietà di pesce gli aromi che più vi piacciono), fino ad ottenere un impasto cremoso(*) e senza pezzi di polpa. Mettetelo nella tasca con bocchetta piccola, fate penetrare la bocchetta dentro il bignè e spremetevi dentro un po’ di crema di pesce. A parte avrete preparato una bechamel usando il brodo del pesce al posto del latte, aggiungendo alla fine del nero di seppia e un po’ di passata di pomodoro, in modo da ottenere un colore marrone carico. Componete il “profiterole” e coprite con la crema “al cioccolato di mare”…

(*) se l’impasto è troppo duro, aggiungete olio e brodo. Se è troppo molle, della mollica di pane bianco raffermo inzuppata nel brodo e ben strizzata.

Dolcezze pericolose

Da qualche settimana è stato diffuso il documento prodotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con le nuove linee guida per una sana alimentazione. Uno degli elementi salienti è la valutazione della quota di calorie da trarre quotidianamente dallo zucchero, che viene consigliata non eccedere il 5% del totale. La nostra attrazione per i cibi dolci viene da lontano: quando la specie Homo si trovò a contendere il cibo ad altre creature, dovette ottimizzare lo sforzo e capì presto che i cibi ad alto contenuto di zuccheri garantivano un maggiore apporto energetico. Oggi non è più così, nessun animale ci contende il cibo sui banchi del mercato, ma l’attrazione per i cibi dolci è rimasta stampata nel nostro istinto. E’così che l’80% dei circa 80.000 prodotti alimentari presenti nei supermercati contengono zuccheri aggiunti(“junk food”). Oramai abbondano gli studi che tendono ad identificare lo zucchero come responsabile delle patologie più varie, fra cui tutte quelle tumorali, tanto da farne parlare come di un vero e proprio veleno !

Broccolo (cavolfiore) alla siciliana

 

In Sicilia il cavolfiore viene chiamato broccolo. Eliminato questo possibile motivo di difficoltà interpretativa, ne rimane uno, più grave, di carattere “tecnico”: trovare un cavolfiore che sappia di cavolfiore. E’ una parola! Potete provare con gli esemplari di razza non bianca, quindi verdi, verdini, verdastri o violetti. Dopo averlo lavato e suddiviso a ciuffi, mettete questi a strati in una grande padella con il fondo spesso, distribuendo con generosità, tra uno strato e l’altro cipollina ( o porro)tritata, filetti di acciughe, sale, peperoncino piccante  tritato, formaggio pecorino tagliato a lamelle sottili. Alla fine, irrorare con mezzo bicchiere d’acqua ed un filo d’olio. Copritelo con un coperchio, o un piatto, leggermente più piccolo della padella e mettetevi sopra un peso. Mettete il tutto su fiamma bassissima, e lasciate cuocere. Dopo un’ora, spruzzate di vino rosso (poco meno di un bicchiere), lasciate evaporare  a tegame scoperto, aggiungete ancora un filo d’olio. Lasciate riposare un minimo di 12 ore, e servite a temperatura ambiente.

Mangiare a tutte le ore ?

 

Per millenni e fino a non molto tempo fa le attività lavorative che si svolgevano per strada sono durate l’intera giornata, così che la possibilità di rifocillarsi doveva essere accessibile sempre: da qui nasce quello che oggi viene detto cibo di strada (o, dagli anglofili impenitenti, streetfood). Scomparso in buona parte delle società in cui la produzione e il consumo di beni sono di tipo industriale, sopravvive da qualche parte. Nei paesi della riva sud del Mediterraneo, ma anche in Grecia (gyropitta) e in Turchia, esiste il kebab, che da tempo è diffuso anche nei paesi europei che hanno un passato coloniale e, da un po’, anche in Italia, con livelli di qualità molto vari. I felafel un po’ dappertutto, e a Marrakech un delizioso panino riempito con sardine appena fritte roventi, a Istanbul i Lahmacun parenti stretti della pizza e i Börek ripieni di formaggio o patate o carne, a Lisbona le vaporose polpette di bacalao. A loro modo anche le tapas o i pinchos spagnoli sono eredi di questa tradizione millenaria. In Italia qualcosa è rimasto: il panunto e il lampredotto fiorentino, la focaccia e la farinata genovese, la torta e la frittata di salvia livornese, piade e crescioni (anche cassoni) in romagna, la porchetta romana, e quella umbra, e quella marchigiana, i panzerotti di Puglia, gli gnummarieddi salentini, e a napoli naturalmente la pizza e l’acqua ‘e purpo, e il panzerotto, e le varie versioni del panuozzo. Ma la regione in cui la tradizione si è conservata maggiormente è certamente la Sicilia e di sicuro Palermo offre la scelta più ricca e la maggiore possibilità di assaggiare cibi di strada che sono autentico antiquariato alimentare. Le friggitorie tirano fuori di continuo dall’olio sempre caldo panelle, crocchè e rascature, arancine, e verdure di stagione pastellate, e pesce,  e spiedinirizzuole (ravazzate, se sono cotte al forno)e quaglie, calzoni, rollò e iris (anche al forno). Ma c’è anche chi vende pani c’a meusa (tradizionalmente dette vastedde), sfincioni e sfincionelli, stigliole, frittola, quaruma…Anche i cannoli, che, secondo tradizione, vengono riempiti di ricotta al momento, rientrano in questa categoria. Va invece riducendosi la consuetudine di sgranocchiare per strada le pannocchie di granturco lesse (pollanchelle), e le domestiche (carciofi lessi in acqua e limone). E c’è anche chi tra i banchi dei mercati gira con un gran vassoio coperto, proponendo “panine, broscine e sanduvàic” (panini, piccole brioches e sandwich). Considerata la scarsa confidenza che molti hanno con i cibi non venduti al supermercato, di alcune di queste pietanze è meglio non rivelare la natura…